Iniziamo dalle ultime cose, perché un disco solista dopo tanti anni?
“Perché avevo bisogno di seguire un percorso che fosse interamente realizzato e seguito da me, un momento particolare della mia vita in cui avevo bisogno di pensare a delle cose belle, e in quei casi io penso alla musica, a comporre. Volevo farlo da solo perché era il momento giusto”.

Nella presentazione c’è scritto: “Oltre” è un disco pieno di speranza fatto in un momento storico difficile. Difficile perché e per chi?
“Difficile perché il mondo sta attraversando un conflitto di modernità, il vecchio non è ancora morto, il nuovo tarda a nascere ed io mi sento in questo limbo, c’è un grande cambiamento che sta arrivando però è ancora una fase di passaggio, la gente sta soffrendo. Io invece canto della speranza, credo sia la cosa più bella, più creativa dell’uomo. Riuscire a credere che ci sia la possibilità di andare oltre, anche in un momento tosto, mi consola”.

Difficile quindi per tutti, non solo per te stesso…
“Certo…quando faccio musica io penso sempre in termini di collettività, anche come musicista non riesco a vedermi staccato dalla realtà che mi circonda, non ho il trip dell’artista…che si deve godere le cose…l’arte ha molto a che fare con quello che succede nel mondo”.

Sempre dalla presentazione: Oltre è scritto come un unico racconto, individuale e collettivo, a metà strada tra la biografia di un uomo e quella di una generazione, in un comune e ineluttabile destino di rivolta. Quindi è questo ciò che ci aspetta?
“Basta vedere cosa sta succedendo in Turchia. A me non piace la violenza, preferisco i cambiamenti profondi, però ci sono troppe disparità, poche persone che hanno molto e tante persone che hanno poco. Non credo potrà continuare così a lungo. Il rap mi ha sempre dato la possibilità di pensare in questi termini, è una chiave di lettura della modernità, i rapper sono veramente dei giornalisti, hanno delle antenne sensibilissime”.

Quindi la rivolta di cui parli è culturale…
“Una rivolta morale. Credo debba essere intesa come cambiamento profondo dei valori in cui si crede, quelli che passano oggi anche livello di mass-media penso siano fuorvianti”.

Una provocazione: perché tanti featuring nel disco? Voglia di condividere o più timore a camminare da solo?
“Guarda, in realtà è proprio il mio modo di lavorare, quando ho sentito il pezzo con Grido ho subito pensato a lui, ci deve essere mi sono detto, così come la traccia con J-Ax e tutte le altre. Quello che condivido lo faccio molto naturalmente, è semplicemente il mio modo di concepire la musica, non riesco a stare da solo”.

Hai una lunga storia musicale alle spalle, collaborazioni importanti dagli Articolo31 ai Club Dogo, Nicola Conte, Gianluca Petrella, i tuoi brani sono passati su tutti i network nazionali. Guardando tutto questo, la tua carriera a che punto è in questo momento?
Prima di rispondere, ride: “Per me, è il più bel disco che ho fatto. Credo di non aver mai scritto liriche così belle e aver trovato così tante melodie che mi piacessero tutte insieme. Avevo scritto 16 brani e ne ho inseriti 10, sono stato molto duro con me stesso, inserendo solo quelli che mi piacevano veramente. Per la mia carriera, l’ultimo album è del 2005, ora esco con un disco e per la prima volta c’è il web che la fa da padrone…puoi raggiungere tutti quanti, la community…condividere…come hai detto tu, i miei pezzi hanno avuto parecchio riscontro, oggi mi sento come un debuttante. Sono contento”.

Il rapper o chi fa hip hop ha spesso una storia complicata alle spalle. Che succede quando arrivano i soldi e il successo?
“Guarda non lo so…io ho avuto una carriera tutta particolare, ho fatto tanto underground e ancora lo sono, sono da nicchia non un artista da cult, non ho mai avuto quel successo, anche commerciale, così grande…conosco, sono amico, collaboro con persone che hanno avuto successo e soldi. È una cosa che ti cambia la vita…”

…quindi il rischio che l’artista vada in crisi e sia messo in discussione proprio da chi lo ha osannato per quel suo passato c’è tutto…
“Sì. Attenzione, persone che vengono veramente dalla strada e hanno avuto successo io ne conosco…ma…ti dirò, nessuna…se cerchi qualcuno che fa il gangster con i soldi, forse devi guardare al neomelodico più che al rap italiano”.

Perché il collettivo Pooglia Tribe è stato un fenomeno secondo te?
“Pooglia Tribe è nato per volontà mia, di mio fratello Torto e un altro paio di persone, facevamo Zona Hip Hop in radio, convogliando in questa trasmissione le migliori persone con cui collaboravamo e quindi nacque l’idea di dare un nome a questa crew. Poglia Tribe è nato perché un gruppo di terroni decide di scrivere la sua ca**o di pagina nella storia dell’hip hop italiano. Il rap delle nostre parti era sempre stato un po’ vituperato, guardavano tutti a Bologna all’epoca, nemmeno a Milano, e noi con quel disco li schiantammo. Avevamo una bella energia ed eravamo una bella squadra”. Per tutto il tempo, gli brillano gli occhi nel ricordare.

So che sei padre, questo ha cambiato il rapporto con la musica?
“No. Mi ha reso maggiormente consapevole come uomo. Ho visto delle cose assurde, musicisti frustrati che ai figli di tre anni piazzano in mano lo strumento o il microfono. Io non lo farò mai, spero che mio figlio faccia altro, mi sembra anche stonato – ride – mentre è bravissimo a fare i conti, cosa in cui sono negato. Magari diventerà un matematico. Mi ha cambiato la vita, è la cosa più bella che mi sia mai successa e me la tengo stratta come una favola, questa cosa qua di mio figlio e mia moglie. Ho una bella famiglia, non ho mai creduto a chi ha detto non posso più fare questo o quest’altro perché sono diventato padre. Queste cose non ti possono danneggiare”.

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