Perdere una persona cara lascia sempre un senso di vuoto, indipendentemente dal male che l’ha portata via e da ciò che si è fatto per tentare di strapparla alla morte. Abbiamo scelto di pubblicare la lettera della signora Gadaleta, perché in un momeno in cui la Sanità è sotto la lente d’ingrandimento per i continui “disastri” di cui è capace, soprattutto al Sud, crediamo che la comprensione e l’umanità di medici e addetti ai lavori possa essere il primo passo per restituire dignità a chi ha perso la speranza. Certo, non si può generalizzare – lo sappiamo bene – ma non si può neppure far finta di niente. La signora spera che, in questo modo, i medici possano considerare i loro pazienti come qualcosa in più di un semplice numero.

Gentile redazione, Vi scrivo per sfogare la mia rabbia a causa dell’ennesimo caso di malasanità, o meglio ancora, di “mala umanità”. Si tratta di un episodio molto triste, conclusosi giorni fa con il decesso di una persona meravigliosa, di soli 68 anni, mia madre. Quest’estate, precisamente nel mese di agosto, dopo che le è stato diagnosticato un tumore al cervello, uno di quelli che quando te ne accorgi è ormai troppo tardi, mia madre è stata urgentemente trasferita dal pronto soccorso di Molfetta al Policlinico di Bari, dove è stata operata d’urgenza. L’intervento, a detta del neurochirurgo, è andato bene, anche se la rimozione del tumore è stata parziale. Per “andato bene” intendeva che non è morta durante l’intervento e che non aveva riportato danni permanenti. Due giorni dopo l’intervento, il neurochirurgo che l’ha operata è partito per le sue vacanze estive e così la sfortuna ha voluto che un fulmine del genere ci piombasse in uno di quei periodi in cui tutti vogliono andare al mare di giorno e a vedere le stelle di San Lorenzo di notte. Siamo rimasti in balia di “dottorini” alle prime armi, quelli che, almeno per inesperienza, dovrebbero essere più umani e disponibili. Evidentemente, invece, le prime cose che vengono insegnate loro sono l’arroganza e l’ostilità.

Vi racconto quello che è successo. Dopo l’intervento mia madre è stata ricoverata per circa un mese nel reparto di neurochirurgia. Dal momento che da un paio di settimane si stava riprendendo abbastanza bene, decidemmo di aiutarla a sedersi a letto. Così, nell’unica ora in cui ci era concesso di fare domande al medico di turno, mi avvicinai alla stanza medici, dove era seduto il solito dottore che ormai vedevo da giorni, sempre più arrabbiato, nevrotico e scontroso. Gli chiesi, sull’uscio della stanza, con estrema gentilezza, se io e mio padre (quindi non lui) potevamo aiutare mia madre a sedersi perché iniziava ad accusare dolori alla schiena a causa della stessa posizione che ormai aveva da giorni. Lui si alzò dalla sedia molto scocciato, si avvicinò ad un palmo da me e mi urlò in faccia queste parole: “Tua madre non può stare seduta! Ha un tumore al cervello! Lo vuoi capire!”  Vi lascio immaginare il tono con cui mi ha detto queste parole… L’inutile crudeltà con la quale mi veniva messa di fronte agli occhi la precarietà della vita di mia madre e il totale senso d’impotenza erano i pensieri che mi hanno accompagnato da quando sono uscita da quella stanza e nei giorni seguenti, continuando a chiedermi, nel contesto di una situazione tragica: “Perché, se ha un tumore al cervello non può stare seduta?”.Per fortuna a questa domanda, come a tante altre, ha dato risposta un mio amico chirurgo. E purtroppo a questo brutto episodio se ne sono aggiunti anche altri, che non sto qui a raccontare per non annoiarvi, all’insegna della non umanità o addirittura della scarsa professionalità. Non posso non ricordare come il lavoro più banale, scrivere la relazione finale del paziente alla dimissione, è stato fatto con superficialità! E’ stato riportato il lato sbagliato dell’intervento! E’ stato scritto che la paziente aveva bisogno di riabilitazione perché aveva il lato sinistro del corpo paralizzato! E non era vero! Mia madre aveva ripreso perfettamente l’uso delle sue gambe e delle sue braccia da ambedue i lati!

Come ho detto all’inizio, questa lettera non vuole essere semplicemente una denuncia di malasanità o una formale accusa di poca professionalità al personale medico. Non è il momento né la sede per questo. Quello che voglio dire è che le relazioni si possono anche sbagliare. considerando che sono scritte su pezzi di carta da esseri umani che spesso lavorano in condizioni di estrema precarietà e molto oltre il loro orario da contratto. Ma ciò che un medico non dovrebbe mai dimenticare è che la paziente ”35” del letto “22” ha un nome, un vissuto, una speranza, un’anima e una sola vita! Ha una famiglia, ha delle persone che ama e da cui è amata, quelle stesse persone che vede vagare senza meta, senza parole e con gli occhi lucidi tra corridoi e stanze di luci al neon, quelle stesse stanze dove nessuno immaginerebbe mai di finire, fino al giorno in cui all’improvviso, inaspettatamente, incredibilmente……. tocca proprio a te! Non mi sono sentita presa a calci solo dalla sfortuna ma anche da chi maneggia corpi umani dimenticando spesso il proprio cuore sul comodino di una camera da letto. So che la mia lettera non cambierà molto ma forse servirà a smuovere qualche coscienza, la coscienza di chi fa un lavoro sicuramente duro, un lavoro sicuramente stressante. Ma è un lavoro che è stato scelto, è un lavoro che, per sua natura, consiste nell’aiutare gli altri e che, proprio per questo, non può e non deve prescindere dai suoi requisiti fondamentali: la comprensione e l’altruismo.

Paola Gadaleta

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