Il 21 dicembre al Cineporto di Bari sarà presentato ai giornalisti il Lungometraggio di Fabrizio Pastore “Dove Chi Entra Urla”. Centottanta scene girate da una produzione “indipendente” e senza contributi pubblici.

«Buon giorno attori, comparse e collaboratori tutti. Stamattina avevo voglia di sentirvi, perché di vedervi vi vedo ogni giorno da quando abbiamo iniziato questa splendida avventura. Ci siamo quasi. La lavorazione in post produzione del Film, è quasi terminata. Stiamo facendo le cose per benino, per poter iscrivere il lavoro ai festival più importanti del settore. Primo su tutti quello di Berlino, la cui scadenza è a settembre. Il vostro Fabrizio».

La splendida avventura di cui parla Fabrizio Pastore, giovane esordiente regista (e avvocato) del Film “Dove chi Entra Urla” è terminata ed è un successo: «Perché – come lui dice – l’ambizioso progetto contemplava l’altrettanta ambiziosa volontà di realizzare un lungometraggio con le nostre sole forze e la libera, gratuita partecipazione di uno staff tecnico, di musicisti, attori e comparse, uniti da un’unica passione: il cinema».

Girato e ambientato a Bari, quasi tutto recitato in barese, con sottotitoli in Italiano, il Film è tratto da una storia di Alessandra Minervini. Racconta la vita di un uomo soprannominato “Priso” (il vaso da notte) che, per questo nome, dalla nascita, ha dovuto sopportare ogni tipo di offesa. Ma l’uomo, crescendo, riesce a elaborare una sorta di strategia vitale: quella dell’auto-sabotaggio. Diserta la vita, si mantiene ai margini di una società che non lo vuole, fino a isolarlo. Poi, l’incontro con Bartolo. L’insegnante di una scuola guida, che si riscopre “profeta” e “saggio” e che gli spiega la sua teoria: tutti hanno un “prurito” da cui non possono liberarsi e che procura dolore e sofferenza. “Priso”, allora, concepisce l’idea di uno spazio privato, utopico e surreale, dove poter, invece, lasciare il proprio “prurito”, per liberarsi finalmente dalle angosce più profonde. Insomma, un posto, “Dove Chi Entra Urla”.

La passione per la musica, la pittura e il cinema, tante cose. Ma una in particolare?
«Sono nato nell’81 e sin da piccolo ho sentito un attaccamento sviscerato per la musica che non mi ha mai lasciato. Non un semplice “hobby”. Ma arte, allo stato puro. Poi sono arrivati anche gli studi e la laurea in giurisprudenza».

Perché non un semplice hobby?
«La musica, e l’arte in generale, va intesa come tesoro, opportunità da vivere e non come “semplice” hobby, termine col quale si sminuiscono questo genere di cose‎. Intanto mi sono laureato in giurisprudenza nel 2008. Ma ho avvertito e avverto ancora, il desiderio di vivere facendo quello che mi piace, e quello che mi piace è poter raccontare le cose come le immagino. Per questo a un certo punto mi sono reso conto che la musica non poteva più bastarmi. Allora, ho deciso di aprire una piccola bottega dove realizzare quadri con un nome un po’ bizzarro, “Mulus in Luna”. Ma, tra burocrazia e spese infinite, ho dovuto chiudere. Tuttavia non mi sono arreso e ho rivolto il mio interesse a un altro progetto che coltivavo da tempo, che apparteneva, e tuttora appartiene, ad un mondo inaccessibile, difficile. Un’idea ardita, certo, anche perché nella mia mente si configurava addirittura come lungometraggio».

Un impegno considerevole che però non ti ha impedito di andare avanti, e poi perchè proprio un lungometraggio?
«Per prima cosa mi son detto: perché non posso fare un film? Chi me lo vieta…Un lungometraggio mi avrebbe dato spazio e tempo per dire tante cose in più. E poi, il soggetto della storia della Minervini per certi versi, parlava di me, anzi di tanti, direi di troppi. Voglio dire, come se bastasse essere accettati dagli altri per accettare se stessi e affrontare il proprio “prurito”. Per questo mi sono messo in gioco e il fatto di poter dire, “ok”, abbiamo avuto ragione nel credere e portare avanti questo complicato percorso, mi appaga e soddisfa. Ringrazio ancora coloro che con coraggio si sono tuffati in questa avventura, dal Direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, De Tomaso, che ha recitato da attore consumato e che ho fortissimamente voluto e apprezzato anche per evidenziare gli attuali problemi legati alla “morte” della carta stampata. Fino all’ultima delle 700 persone tra attori in erba e comparse varie. Ma in particolare il mio abbraccio va all’attore Vito Cassano, il “profeta” Bartolo. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto interpretare così “saggiamente” quel ruolo.

C’è sempre un ricordo o una curiosità che di solito diventa parte integrante di un Film, per te?
«Se ci penso sorrido ancora. Avevamo bisogno di una Renault 4, simile a quella guidata dal famoso Bartolo del racconto di Alessandra Minervini. Gio Sada, l’odierno vincitore di X Factor, che allora, però, non era neanche iscritto al concorso, ne possedeva una rossa. Gli abbiamo chiesto di prestarcela perché dovevamo “girare” alle 5 del mattino una scena importante e l’auto era fondamentale. Devo dire che con grande slancio e generosità, Gio Sada si è immediatamente prestato, salvo però dimenticarsene il giorno stabilito. Ma noi tenacemente, attaccandoci al suo citofono, lo abbiamo scaraventato giù dal letto, ridendo del suo stupore e della sua faccia che tanto “parlava” di cuscino».

Un inedito particolarmente faticoso?
«Quando si hanno pochi mezzi tutto diventa più faticoso. Ricordo che nei mesi di luglio e agosto, mi sono chiuso in un box di lamiera, praticamente il mio “studio”, e se posso dire, anche la mia personale “sauna” giornaliera, per montare il Film. Con me, solo due bellissimi e soprattutto coraggiosi gatti, che hanno deciso, di condividere, mio malgrado, quell’inferno quotidiano. In quel luogo “rovente” ricordo di aver lavorato con un semplice “portatile” per 2 interi e “solitari” mesi. In assoluto, i più infuocati della mia vita. Questo per dire che non bisogna lasciarsi illudere da false idee di attrezzature avveniristiche. È ovvio, la strumentazione è importante e agevola molto, però la volontà di riuscire stimola l’ingegno che sbriciola e riduce le difficoltà».