Il tuo esordio nel 1965 è stato con il 45 giri In The Sky inciso per la RCA in un gruppo che si chiamava Fungo Cinese. Il nome è dovuto al fatto che tra i ragazzi allora girava di tutto?

“Era il periodo in cui i giovani portavano il libretto rosso di Mao in tasca e c’era molta voglia di cambiare il mondo, cosa che a quanto pare non è avvenuta più di tanto – ride – in effetti giravano robe strane tra i ragazzi, ma il nome del gruppo è legato a Pippo, il personaggio stralunato amico di Topolino. Era lui che cercava questo fungo cinese”.

Nel gruppo suonavi la batteria, com’è avvenuto il passaggio alla chitarra che è poi rimasto il tuo strumento?

“In realtà con la chitarra ho iniziato seguendo le orme di mio padre, che però era molto severo e mi tormentava con le sue rimostranze, mi riprendeva in continuazione. Mi sono dato alla batteria per sfuggire alle sue grinfie”.

Il periodo del tuo esordio, la seconda metà degli anni ’60, è stato un momento d’oro per la musica…

“Si tratta di un periodo che un po’ rimpiango, musicalmente c’era grande scelta. Era il periodo per la lotta dei diritti dei neri, con le proteste, le marce, i Black Panter, i linciaggi, e nella musica c’erano Aretha Franklin, Percy Sledge, Arthur Conley, Otis Redding, Etta James…nonostante parliamo sempre di blues o di soul music, erano tutti perfettamente riconoscibili, sia nel modo di cantare che negli arrangiamenti”.

Il blues è la tua passione, da dove nasce questo amore per un genere che in Italia ha molti meno consensi rispetto ad altri paesi?

“Sinceramente questo non me lo spiegare, ti posso dire però che quando ero ragazzo e ascoltavo dei brani di musica italiana, salvo rare eccezioni come Mina, sentivo che avrei voluto cantare quell’altro tipo di musica. Per me era un po’ come dover scegliere tra il twist originale e Guarda Come Dondolo di Vianello, in Italia si faceva così, importavamo e aggiustavamo a nostro uso e consumo. Anche nel rock, io non vedo un equivalente italiano dei Deep Purple o dei Led Zeppelin. Secondo me, se uno decide di fare una cosa, dovrebbe farlo seguendone l’autenticità. Questo vizio tutto italiano di aggiustare le cose come pare a noi, ha a che fare con la nostra cultura e purtroppo anche con le nostre tradizioni. Non capisco perché la pizzica salentina tu la debba ascoltare a Melpignano solo una volta l’anno…prova ad andare in Spagna e vedrai quante occasioni ci sono per ascoltare il flamenco”.

A neanche vent’anni suonavi con Jimmy Fontana, Iva Zanicchi, Patti Pravo e Caterina Caselli, protagonisti della musica italiana che poco hanno a che fare con il blues…

“Questa è un’altra cosa che si è persa negli anni: se togli i Pooh o i Cugini di Campagna, gruppi come si intendeva una volta non esistono più. Quando quegli artisti che tu hai citato partivano in tournée, non si portavano dietro tutto il complesso, ma si affidavano a musicisti locali evidentemente segnalati dalle case discografiche, per cui ti poteva capitare di suonare con questi che dominavano la scena musicale e in effetti così è stato”.

Come mai a 36 anni hai lasciato l’Italia per girare il mondo?

“Il Fungo Cinese, per cause di forza maggiore, ad un certo punto ha smesso di esistere, ed io mi sono dovuto «ricollocare con me stesso» e affrontare nuove strade, ragionando da solo e non più come gruppo. Ognuno di noi si trova nella vita a dover prendere delle decisioni, e io non ho solo suonato, ho anche lavorato, sia all’estero che in Italia. Vedi, sono molto appassionato di cultura orientale e ho letto una cosa che mi piace molto. Tu credi di essere fermo, immobile…in realtà è come se fossi su una zattera in un fiume, per cui anche se non ti muovi, la corrente ti sposta. Piuttosto che non fare niente, allora, tanto vale che cerchi di dare una direzione alla tua vita: può andar bene e può andar male, ma tanto ti saresti spostato comunque, la cosa certa è che non puoi andare controcorrente e recuperare il passato. Esiste soltanto il presente e forse il domani”.

Tornando alla musica, cosa c’entra il blues, nato si dice nelle piantagioni di cotone lavorate dai neri negli stati del sud americano, con un musicista cresciuto a Gioia del Colle?

“Ho sempre pensato che un dolore, una lacrima, non hanno nazionalità o colore, il bambino piange al polo nord come in Africa. Avendo lavorato all’altoforno, dove si bevono 5 o 6 litri di acqua al giorno in turni che includono Natale, Capodanno e l’Epifania, ti posso garantire che la sofferenza è esattamente la stessa che provavano i neri impegnati nei campi di cotone o quella che provano oggi i nuovi schiavi che raccolgono i pomodori”.

Al tuo ultimo disco Rosa dei Venti, uscito a giugno, hanno collaborato numerosi musicisti e cantanti. Ad alcuni di questi, come Cinzia Eramo e Dola J Chaplin, hai lasciato anche lo spazio di voce principale in alcuni brani…

“Si dice che la musica dovrebbe unire, che è un linguaggio universale…per me l’importante è che sia fatta bene, ma più che altro sentita bene. Viviamo in un’epoca conflittuale: rimanere saldi alla radice da cui si proviene, secondo me, non è uno star fermi, come dicono molti, ma rimanere autentici, naturalmente continuando a crescere. Un conto è mischiare tutto, un conto è invece evolversi, con il tempo che ci vuole in tutte le cose, perché poi le cose fatte troppo in fretta generano soltanto confusione. Sono una decina circa gli amici che hanno partecipato al disco, da Mario Rosini a Amy Weideman, da Michele Sangiorgio a Pino Donvito e Leo Gadaleta, oltre quelli che hai citato. Un po’ come fa il regista cinematografico, ho parlato con loro, spiegando cosa avessi in mente, poi li ho lasciati liberi di esprimersi come sanno fare. La cosa importante non è che sia io a cantare, ma che il risultato finale sia ciò che desideravo”.

Sebbene tu sia definito un bluesman, nel disco sono presenti diversi generi musicali, dallo swing, al country alle ballad etc. C’entra qualcosa con il titolo dell’album?

“Se tu stai fermo in un luogo, qualunque esso sia, e presti particolare attenzione, noterai che, insieme agli odori e ai profumi, il vento porta con sé anche dei suoni, provenienti da chissà dove, e questi in qualche modo ti colpiscono, ti influenzano, hanno degli effetti su di te. In un certo senso possiamo dire che oltre ai cambi di stagione, il vento porta con sé anche quei mutamenti che ci sono nel mondo, che tu lo voglia oppure no. Da musicista io traggo delle conseguenze, delle sensazioni da questa osservazione, che poi trasporto in musica. Rosa dei Venti, oltre a essere un luogo a cui sono molto affezionato, simboleggia questi incrocio di correnti, di influenze, di suoni, proprio come avviene nella natura”.

Gianluca Lomuto

Riprese e montaggio di Gianluca Lomuto:

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Fotografie di Giovanna Mezzina: