Iniziamo da Nu Joy, il tuo ultimo album. Hai un ottimo rapporto con la tecnologia, eppure nel disco l’uso del computer è molto contenuto. Ci spieghi questa apparente contraddizione?

“Utilizzo la tecnologia per quanto riguarda la pre-produzione dei provini, agevola il lavoro di un musicista solitario, in campagna – sorride – che ha bisogno di sentire subito gli arrangiamenti, e poi la utilizzo per la comunicazione, per i contatti che si possono avere nel lavoro che faccio. In Nu Joy abbiamo utilizzato il computer per registrare e per editare le varie traccie. Per il resto abbiamo suonato tutto dal vivo, con poche sovraincisioni, esclusivamente perché era previsto l’intervento di alcuni musicisti non in loco durante la registrazione. In questo senso il computer ha agevolato la produzione, perché di base il disco è stato registrato nel bellissimo Zork Studio da Daniele Chiarello e poi completato in vari studi in Italia e a Washington”.

Nu Joy è prodotto dalla tua label Groove Master Edition, pubblicato su etichetta Columbia Records e distribuito da Sony Music. Ritieni utile e funzionale questa frammentazione del settore discografico?

“Sono un artista indipendente da venticinque anni, da quando ho capito che per essere libero di distribuire la mia musica dovevo farmi le cose a casa. Ho un partner storico, Roberto Ramberti, con cui abbiamo messo su etichetta discografica, edizioni musicali, società di produzione e booking per il management. Ho approfittato di una chance, unica in questo momento, di avere le porte aperte per la distribuzione internazionale, proprio per accordi discografici, ed era molto importante per me. Lo abbiamo fatto solo perché in Luciano Rebeggiani, direttore di Classica e Jazz della Sony Italia, e Paolo Maiorino, direttore del Marketing, abbiamo trovato dei partner molto sensibili e anche costruttivi. Un accordo che sta dando i suoi frutti, perché mi ha dato la possibilità di essere l’artista della Columbia Records residente in Italia e perché da quando è stato pubblicato, a novembre, Nu Joy è stato primo tra i singoli e primo tra gli album della classifica jazz di iTunes per tre settimane, ed è ancora nella top10”.

Perché si continuano a stampare fisicamente, su cd e nuovamente in vinile, se i dischi non si vendono più?

“I cd si continuano a vendere, poco, ma si vendono, e si stamperanno ancora finché si deciderà che il cd è obsoleto e la musica dovrà essere tutta digitale, su formati diversi, da mp3 a wav o aiff etc. Siamo tutti in attesa di un cambiamento che forse sta per avvenire, con un nuovo sistema di distribuzione chiamato spotify, che sta funzionando molto in Svezia e negli Stati Uniti: una sorta di streaming autorizzato tramite cui accedere, con 10 euro al mese, alla più grande banca dati in assoluto. Con una connessione internet e un piccolo abbonamento, puoi ascoltare dove vuoi e quando vuoi tutta la musica presente in archivio. Questo cambia completamente il meccanismo della distribuzione, però offre una maggiore esposizione, soprattutto agli indipendenti”.

Cosa pensi di questo ritorno del vinile?

“È un pezzo di storia della musica ed io ci sono affezionato, finalmente li stanno stampando con il peso giusto e poi, con le nuove tecniche di masterizzazione, il suono dei vinile di oggi è veramente bello”.

Sempre in giro per il mondo, ancor di più ora che insegni a Los Angeles, eppure hai sempre gli occhi sul settore musicale pugliese. C’è qualcuno che ti ha favorevolmente impressionato, oltre a quelli che collaborano con te?

“Ce ne sono diversi, ma c’è un’artista in particolare che trovo interessante, se avessi la possibilità di investire tempo mi piacerebbe creare qualcosa insieme ed è Serena Brancale, a me piace veramente tanto. È un’artista ed è una musicista dotata di grande sensibilità, di grande cuore, ma anche di tecnica dovuta alla frequentazione quotidiana della musica. In questo momento, è tra i pugliesi, o le pugliesi, da seguire”.

Nel descriverti, molti giornalisti ricordano gli artisti internazionali con cui hai collaborato. Con sincerità, ritieni di aver superato quel punto della carriera in cui è il tuo nome ad essere riportato sui curricula di altri? E se si, che effetto ti fa questo pensiero?

La risposta arriva dopo un attimo di esitazione, preceduta da un sorriso che rivela soddisfazione e un certo imbarazzo.
“Beh…sì…in fondo sono 35 anni che faccio musica per cui è normale. Mi ritrovo nel curriculum di musicisti di cui neanche mi ricordo ed è gravissimo – scherza – sia perché vuol dire che sto rinco*****endo, sia perché vuol dire che sono passati tanti anni. Certamente è carino ritrovarsi nel curriculum di Danilo Rea, Roberto Gatto, Rita Marcotulli ed aver in qualche modo stimolato con la mia musica anche Stefano Bollani, il quale ha dichiarato che il primo pezzo depositato da lui alla Siae è una cover di un mio brano. Sono cose che fanno piacere”.

Sempre parlando di te, argomenti gettonati sono l’amicizia con Arbore e la bravura nello scat. Quando tutto questo smette di essere un piacere e diventa una fastidiosa ricorrenza?

“Non lo devi chiedere a me, io faccio lo scat e sono amico di Arbore, fanno parte di me e del mio essere uomo. Credo sia giusto che continuino a chiedermelo perché la gente è distratta, molte persone non sanno che insegno a Los Angeles, che ho suonato con i più grandi jazzisti a livello mondiale, le cose che sanno arrivano dalla televisione o dalla radio, che hanno un amplificatore talmente grande da schiacciare tutto il resto”.

Insomma, c’è la domanda che vorresti ti venisse fatta e ancora non arriva?

“No, non mi aspetto nessuna domanda”.

So che hai il dente avvelenato con certe antenne che trasmettono sempre la solita musica…

“Non ho il dente avvelenato, più che altro sono dispiaciuto che non ci siano ancora dei direttori artistici o degli editori con una certa sensibilità musicale a gestire i network fatti al 40-50% di musica”.

Hai mai ipotizzato di fondare tu una radio, magari on line?

“Mi è stato anche proposto, ma fare quel lavoro significa chiudersi tutto il giorno in uno studio dietro a un computer e fare incontri continui, quindi non solo programmare la musica e fare la radio. Allora preferisco fare il musicista, mi diverto di più, giro il mondo e forse sono anche più soddisfatto. Certo è più complicato. Mi piacerebbe tornare a trasmettere in radio – confessa – ma ancora non mi è stata fatta una proposta interessante”.

A proposito di girare il mondo, come appaiono l’Italia e la musica italiana viste da fuori?

“La musica in Italia appare fantastica, perché ci sono dei musicisti di grande spessore nel jazz, nella musica classica, ci sono dei grandi autori, dei grandi compositori, dei direttori d’orchestra che vivono all’estero e rappresentano l’eccellenza dell’arte e della cultura in Italia. Il problema è la musica che gira nel nostro paese, quella che ci fanno ascoltare, che non rappresenta il valore artistico e il talento dei musicisti italiani. La musica gira è fatta per il marketing discografico, allora una cosa è parlare di discografia, una cosa è parlare di musica. Quando parliamo di musica parliamo di concerti, di una attività legata alla creatività, quando parliamo di discografia parliamo di numeri e di supporti che devono essere venduti come se fossero delle saponette – afferma con amarezza – siamo sempre lì, oggi in televisione ascoltiamo solo nuovi talenti da sfornare, però porca miseria c’è il fior fiore dei musicisti di fama internazionale che non trova esposizione. La cultura non si fa continuando a pensare che quello fa jazz e allora la gente si annoia e non guarda il programma”.

La tua carta di identità, alla voce professione, avrebbe bisogno di uno spazio molto grande: cantante, compositore, musicista, autore e conduttore televisivo, speaker radiofonico, giornalista e ho sicuramente dimenticato qualcosa. Da bambino cosa sognavi di fare?

“Da bambino sognavo di fare il batterista, e allora ho fallito” ride.

Gianluca Lomuto

Riprese e Montaggio Gianluca Lomuto

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Fotografie Giovanna Mezzina