Il libro, edito da Adda, non è un saggio, non è una denuncia, un racconto. E’ tutto questo insieme. Un modo per aiutarci a capire ciò che si nasconde dietro l’obiettivo di una telecamera o dietro una firma sotto un pezzo scritto col sangue. Senza paracadute è soprattutto un inno alla vita, perché scegliere di ammazzarsi non è mai la scelta migliore. E’ arrivato il tempo di rimboccarsi le maniche.

Chi o cosa le ha dato la spinta di iniziare a scrivere?

A un certo punto della mia vita, quando credevo di aver trovato una certa stabilità: un contratto a tempo indeterminato, è arrivato il calcio nel sedere. Un licenziamento apparentemente immotivato. Se ho fatto qualcosa di male, giuro, dormivo. E’ stato come se mi avessero cucito la bocca, amputato le braccia. Avevo tre scelte: deprimermi, ammazzarmi (che poi poteva essere la normale conseguenza della depressione) o elaborare il lutto in qualche modo.

E cosa ha scelto di fare?

Come vede ho  preferito vivere. La scrittura è stata terapeutica. Ho iniziato con l’idea di vendicarmi, di raccontare i vizi e i segreti dell’azienda che mi aveva lasciato a casa dopo otto  anni di onorata gavetta e carriera. La rabbia, però, ha lasciato presto il posto alla voglia di raccontare quella parte del giornalismo precario che regge l’informazione in Italia.

Non è una novità assoluta

Ha ragione, ma succede spesso a noi altri di raccontare da precari a meno di 500 euro al mese le proteste di infermieri, insegnanti, metalmeccanici che di euro al mese ne prendono almeno 700 di mobilità o disoccupazione. Chi non è assunto – qualcuno di noi non lo è mai stato – non può beneficiare di ammortizzatori sociali. Non denuncio la mia situazione, ma quella di un settore intero.

Perché senza paracadute?

L’ho sognato in una notte insonne poco prima di Natale. Non è mai più cambiato quel titolo, rivelato a mia moglie, che ancora non sapeva della mia intenzione di scrivere un libro. Precipitare senza paracadute provoca quasi sempre la morte. Il nostro è un dramma. Si precipita con la consapevolezza di poter morire e, a meno di una rivoluzione, non si può fare niente per evitare di schiantarsi al suolo.

Lancia il sasso, ma poi nasconde la mano come si fa spesso in questi casi?

Lancio il sasso e magari urlo mentre lo faccio, in modo che si possa sapere perfettamente chi è stato. Racconto le fragilità, le emozioni, la passione del mestiere più bello del mondo – almeno per me che non so fare altro, seppure in gioventù ho avuto esperienze occasionali come gommista, saldatore, gelataio e magazziniere in una cella frigorifera.

Parla del giornalismo come il mestiere più bello del mondo, praticamente una dichiarazione d’amore, e poi ci si scaglia contro? E’ mica masochista?

Sì, fino a quando la professione non sarà riformata in maniera seria, a cominciare dall’accesso, quando non avviene per raccomandazione ovviamente. Oggi succede almeno nel 70% dei casi. Il mio è anche un invito alle istituzioni giornalistiche, al legislatore. Con questa confusione, fino a quando tutti potranno improvvisarsi cronisti o intervistatori, non ci sarà mai un cambiamento radicale.

E’ possibile dare dei numeri?

Sapesse quanti ne ho dati nel periodo successivo al licenziamento. A parte le battute, sembra che il giornalismo non possa fare a meno di numeri e statistiche. E allora facciamoli, anche se provvisori: I tesserati all’Ordine – che minerei dalle fondamenta –  sono 110mila. Gli squali dell’editoria fanno a gara a chi paga meno un pezzo (c’è chi prende anche 2 euro ad articolo). Il sindacato di categoria non è abbastanza incisivo;  25mila freelance – ma chiamiamoli precari (co.co.co, partite Iva, a borderò, a collaborazioni camuffate o in nero ecc.) – rappresentano il 55% della forza attiva. Lavorano fino a 15 ore al giorno, come è capitato a me per qualche euro o, come è successo a me, senza straordinari, indennità di rischio, reperibilità. Di questi, 6 su 10 hanno un reddito inferiore ai 5mila euro.

Mi ha particolarmente colpito la prefazione di Antonio Caprarica. Si è reso conto del valore che ha attribuito al suo libro?

Non del tutto. Quando l’ho letta ho pianto a dirotto, singhiozzavo. L’ho contattato scrivendo al suo indirizzo di posta elettronica. Abbiamo avuto una fitta corrispondenza e poi la prefazione. Ringrazio il maestro così come tutti gli altri colleghi – e non solo colleghi – che hanno deciso di sposare la causa. Sono stati contattati tutti senza raccomandazioni, solo attraverso la rete: email e massaggi su Fecebook.

Sa che probabilmente si farà un bel po’ di nemici?

E’ il motivo per cui qualcuno mi ha pregato di non pubblicare il libro. Io sono convinto del contrario. Ci sarà un Tribunale a Berlino!

Le vignette sono davvero molto belle

Ho lottato molto per poterle pubblicare tutte e31 acolori. Ringrazio per questo l’editore. Anche lui ha capito che questo è molto più di un racconto. Seppure scritto in maniera ironica, divertente e divertita, si parla di questioni a tratti drammatiche. La vignetta è la sintesi per immagini di ogni capitolo. L’autore è un ragazzo di Grumo Appula, di 24 anni, anche lui precario. Ha saputo condensare e le mie emozioni con un tratto ed espressioni mai banali.

Adesso le faccio una domanda compromettente

Senza pietà

Lei dirige ilquotidianoitaliano.it,  un manipolo di neo-pubblicisti e ragazzi che vorrebbero diventarlo

Prima di accettare la direzione ci ho pensato molto, anche alla luce del libro. Uno non può denunciare qualcosa ed essere la peggiore delle cause del male. Intanto ringrazio tutti i collaboratori per l’impegno e la dedizione. Non è facile trovare gente così motivata che, come te, è un giornalista e non si limita a farlo. Non è una direzione, ma un progetto. Tra poche settimana cambia la grafica, ci saranno nuovi contenuti: blogger, vignette satiriche, video, interviste alla gente e a chi ha il potere, nuove rubriche. In questo modo si spera di crescere e di riuscire a fare  il salto di qualità, tutti insieme. La crisi dell’editoria e della carta stampata in particolare sono esplose, senza che il digitale e la multimedialità garantiscano certezze di nessun tipo. Da qualche parte, però, bisogna pur cominciare.

Angelo Fischetti