In questi giorni la sanità pugliese è finita nel mirino dell’opinione pubblica. Non è che finora casi di presunta malasanità o sciatteria mancassero. Le storie della signora Giovanna, fuggita dal Policlinico per non morire a 57 anni e trapiantata di fegato ad Ancona e il decesso della signora di 38 anni, morta durante un intervento per la fecondazione assistita, hanno scosso gli animi. Pazienti e familiari si ribellano, urlando i presunti torti subiti. Non vogliamo avviare una caccia all’uomo o all’errore a tutti i costi, ma solo evidenziando ciò che non va si può sperare in un cambiamento.
Nel folto plotone di malcontenti e danneggiati non ci sono solo sciacalli desiderosi di mettere insieme qualche soldo. C’è anche chi vuole vedere rispettati i propri diritti, come la signora M.C., barese di 77 anni. L’anziana vedova si rompe il femore sinistro il 7 maggio e viene operata con successo al Policlinico (tanto per sottolinere che non bisogna generalizzare). Il calvario inizia dopo, con la fisioterapia. Il 12 maggio la donna viene trasferita alla Mater Dei, nel reparto di Riabilitazione. I medici stabiliscono 30, 40 minuti di esercizi al giorno.
Dopo circa tre settimane, il 4 giugno, secondo quanto ci viene raccontato, una radiografia avrebbe mostrato tre costole rotte. L’incidene, avvenuto durante il ricovero presso Mater Dei, ha comportato la sospensione delle cure, portando all’eliminazione del deambulatore ascellare e di tutti gli altri dispositivi usati fino a quel momento. “A quel punto – racconta il figlio della paziente – ci si aspetterebbero scuse e nuova lena per ripristinare l’iniziale stato di salute”. Di tutta risposta, invece, alla donna sarebbe stato comunicato che entro il 20 giugno sarebbe dovuta essere dimessa e quindi che avrebbe dovuto provvedere alla riabilitazione a casa a sue spese o dei suoi familiari, nonostante le tante barriere architettoniche che renderebbero il recupero un inferno, oppure in un costoso centro specializzato a circa 950 euro al mese.
L’anziana è tutt’ora allettata. Dev’essere aiutata a lavarsi, alzarsi, mangiare. L’unico figlio della donna, che lavora al nord e che ha già preso due settimane di permesso per sare vicino alla mamma, contatta un legale per chiesere il giusto risarcimento per il pagamento delle spese mediche che la struttura della C.B.H. Hospital, non vuole più garantire, nonostante il presunto danno causato alla donna. Nel frattempo, infatti, è arrivato il termine massimo dei 40 giorni previsto per il ricovero in convenzione. Il legale non perde tempo e scrive alla direzione della struttura.
Speriamo in ogni caso che alla fine il buon senso prevalga. La cosa che fa più riflettere è il fatto che per vedere rispettato un proprio sacrosanto diritto si debba fare la voce grossa o rivolgersi a un avvocato. Voremmo, prima o poi, una sanità che finisca agli onori della cronaca per le buone prassi e non soprattutto per le assurdità burocratiche. Si può sbagliare, ci mancherebbe, ma se l’errore non è irrimediabile bisogna rimediare. Un paziente è una persona, non un numero. Un persona che merita tutte le attenzioni possibili, a maggior ragione se si tratta di chi non ha nessuno che possa lottare al suo posto.