Il 12 marzo del 1977 il brigadiere Giuseppe Ciotta cadeva sotto i colpi sparati da Enrico Galmozzi. Erano gli anni piombo, gli anni del terrorismo rosso, dei servizi deviati e dei misteri all’italiana su cui ancora oggi si sa poco. A distanza di 40 anni, la famiglia del brigadiere, Medaglia d’Oro al Valore Civile, aspetta di conoscere tutta la verità sul quel tragico, drammatico, evento che ne ha cambiato il corso della storia.

Per non dimenticare, per far sì che non passi tutto sotto silenzio, coperto da quel manto polveroso che spesso copre gli eventi di cui l’italia giustamente si vergogna, giovedì 16 marzo ad Ascoli Satriano Giuseppe Ciotta sarà ricordato prima con la deposizione di una composizione floreale nel cimitero, poi con il dibattito “Le vittime del terrorismo” che si svolgerà nell’Auditorium del Polo Museale, cui seguirà la presentazione del libro “Divise Forate” di Alessandro Placidi, per finire con la Santa Messa in Cattedrale. Potito Perruggini, nipote del brigadiere barbaramente ucciso, ha scritto una lettera aperta su quei drammatici eventi e ciò che ne è seguito. Eccola.

12 marzo 2017 … 40 anni senza verità
Il 12 marzo 1977, a Torino, il ventinovenne fratello di mia madre, brigadiere Giuseppe Ciotta, in servizio all’Antiterrorismo del Piemonte, venne trucidato con tre colpi di pistola da un commando di Prima Linea per mano di Enrico Galmozzi (condannato definitivamente a 27 anni ma libero dopo 13). Avevo 12 anni. La mia vita e quella dei miei familiari sono state condizionate da quella tragedia. Soprattutto perché, per quarant’anni, la memoria di mio zio è stata calpestata da un altro vile attentato: quello del silenzio.

Purtroppo in quei giorni venne ucciso anche il giovane Francesco Lorusso a Bologna, durante gli scontri tra studenti e forze dell’ordine. Una stampa manipolatoria, da allora, rivolge tutta la sua attenzione e accende i riflettori solo su quella vicenda, ignorando quella di mio zio. Al pari di altre vittime della follia terroristica. Penso a Claudio Graziosi, Ciro Capobianco, Antonio Santoro (prima vittima di Cesare Battisti) e molti altri servitori dello Stato che, come mio zio, sono morti due volte: prima caduti sotto i colpi di una rivoltella; poi caduti nell’oblio.

Per troppo tempo s’è raccontata una storia distorta, sbagliata. Basti citare quel dossier sul ’77, pubblicato dal Manifesto nel 1997, in cui l’omicidio di mio zio è stato sbianchettato, ignorato. Per anni si è continuato ad avere un atteggiamento di quasi maggior riguardo per i cosiddetti «ex» terroristi piuttosto che alle loro vittime.

Il soprannome di mio zio era Serpico e nel volantino di rivendicazione dell’omicidio i terroristi lo indicano come collaboratore del Servizio di Sicurezza nazionale e il braccio destro del commissario Giorgio Criscuolo, che diventerà successivamente il numero due del Sisde in Italia.  Nei successivi due anni altri tre membri della sua squadra vennero uccisi, sicuramente stavano lavorando su qualcosa di molto delicato che ancora non ci è dato sapere, ma, cosa certa è che quella squadra fu antesignana della divisione antiterrorismo del generale Carlo Dalla Chiesa.

Addirittura il neonato sindacato di polizia, attraverso un editoriale del direttore della loro rivista, Franco Fedeli, chiedeva che le indagini sull’omicidio Ciotta venissero estese anche all’interno dei corpi di polizia; a seguito di ciò venne fatta anche un’interrogazione parlamentare. Ho sperato che venissero pubblicati i diari tanto annunciati del presidente Francesco Cossiga, all’epoca Ministro degli Interni, perché avrebbero potuto dare quell’importante contributo di verità circa l’eterodirezione delle azioni dei brigatisti.

Attualmente, tramite i nuovi canali di comunicazione online, il killer di mio zio continua senza vergogna, liberamente, a consigliare “la lotta armata”, ostentando la sua abilità nell’uso delle armi. Nella totale immoralità, i membri di Lotta Continua nel 2009 si sono riuniti a Roma per festeggiare i 40 del movimento. Tutto questo è vergognoso!

Ma lo scandalo più grande è stato aver fatto candidare un certo Roberto Maria Severini al Senato della Repubblica Italiana durante le elezioni politiche del 2006. Persona per la quale io stesso ho raccolto le firme senza sapere che dietro quel falso nome e quella falsa pulita fedina penale si nascondeva in realtà il terrorista Roberto Sandalo! Ho denunciato tutto questo alle massime autorità dello Stato ma sono stato completamente ignorato. Oltre il danno, la beffa proprio da quello Stato che mio zio ha servito fino alla morte!

Una corretta rielaborazione storica, condivisa, di quello che è accaduto, è fondamentale per noi e per le generazioni future, considerato il clima che si sta vivendo ancora oggi: sarebbe auspicabile costituire una Commissione per la Verità e riconciliazione nazionale. Purtroppo, l’Italia è un paese senza memoria, dove alcuni continuano a definire “ex-terroristi” dei killer già condannati “in nome del popolo italiano” quali eversori contro l’ordinamento Costituzionale dello Stato.

A distanza di tanti anni, pochi passi in avanti sono stati fatti per la ricostruzione della verità storica relativa ai moventi e ai mandanti di quei terribili anni di piombo. “Fummo usati, e per questo molti politici temono la verità” ricordava il terrorista Franceschini nell’agosto del 1991. “Ora dobbiamo dire, tutti insieme, la nostra verità” diceva Morucci nell’ottobre del 1993. Cosa vogliono dire?

Mio nonno, Potito Ciotta, durante la trasmissione di RAI DUE “Ring” del 1977, intervistato da Aldo Falivena subito dopo l’omicidio, con uno sguardo carico di dolore e rabbia diceva: ”Vorrei sapere perché? Anzi lo voglio. Lo pretendo”. Quella sua richiesta non ha mai avuto risposta. Ma io non smetterò mai di continuare a chiedere che la verità prima o poi si faccia avanti.