A un anno dalla scomparsa del proprio figlio Davide, 23enne di Conversano morto in un incidente stradale sulla ss16, nel tratto tra Torre a Mare e Bari, a causa dell’impatto con un’auto guidata contromano, Gianni D’Accolti si è sfogato in una lettera, accusando lo Stato di indifferenza e chiamando idealmente a raccolta tutte le famiglie italiane.

LA LETTERA DI GIANNI D’ACCOLTI, IL PAPÀ DI DAVIDE – Il 21 febbraio 2017 è già un anno che mio figlio Davide Gaetano D’Accolti, ragazzo di 22 anni, non ha avuto più diritto di vivere perché un altro individuo (innominabile per la privacy?) in preda ad alcool e droga a livelli da coma, guidando ad oltre 170Km di velocità, percorrendo contromano la Superstrada Adriatica, ha così deciso di chiudere la sua serata del sabato sera.

Potrei dirvi tanto di Davide, del nostro dolore, della fatica di abbracciare ormai solo una foto e parlargli, della lotta per non cedere all’odio, della forza per interessarci a mantenere vivo il suo impegno per la musica classica, il suo pianoforte, il recupero di organi antichi, anche oltre le nostre possibilità economiche, del senso genitoriale di inutilità, di una sorellina che si riscopre sola proprio quando si affidava a lui per crescere, della nuova condizione per cui ogni piccolo dolore degli altri si riversa in te in modo sproporzionato, della stanchezza per le parole, della difficoltà di sostenere lo sguardo della mamma perché non sei riuscito a salvare suo figlio, che è anche mio figlio e potrebbe essere anche il vostro.

Non sono i genitori dell’assassino a sentirsi colpevoli di come hanno fatto crescere il loro figlio, sei tu che ti senti colpevole per non averlo difeso dall’incontro fatale, sei tu che sei colpevole se non perdoni l’assassino perché possa evitare l’ipotetico rischio del carcere, mentre, in modo sostanziale tu già ci sei, perché non riesci più a godere di un tramonto, l’arte ti diventa insensibile, la libertà non esiste più ed ogni giorno che ti svegli, all’aurora, puoi solo rinfacciargli di averti lasciato ancora qui ed a lei di essere ancora arrivata.

Non sei più capace di essere gentile, di coltivare le amicizie, elemosini aiuto, ma poi non hai la forza per dire grazie e te ne vergogni. Potrei dirvi dei pianti notturni senza più lacrime, perché ora è solo il tuo sangue che può rigarti il volto, della fatica di scalare la Via che sola ti dà la speranza che un giorno potremo rincontrarci e sentire quella voce che ti dice: papà!

E questa speranza ti condanna anche a mettere in discussione tutta la tua vita, le tue scelte, perché non puoi credere solo al dopo, ma il dopo esiste qui ed ora e malgrado tutto, i tuoi comportamenti e pensieri sono verso l’amore, l’unica parola veramente opposta alla morte.

È una speranza che ti sfida fino a chiederti di saper pregare per l’assassino di tuo figlio, perché sappia capire il male che ha fatto e decidere di dedicare la sua vita al bene degli altri, negando il narcisismo e l’egoismo che l’ha portato a crocifiggere la vita di un ragazzo e quella di chi l’ha amato e lo amerà fino all’ultimo respiro. In lui è il diavolo, nell’eccezione originaria del significato, colui che separa, la separazione dell’umanità. E tu malgrado il tuo dolore devi sperare e pregare che sappia ritornare in armonia con la vita, la comunità, con la bellezza del mondo che a noi sembra non essere più data.

Invece, con queste parole, vorrei avere l’opportunità di dirvi che lo Stato, nella sua totalità è indifferente a Davide, è indifferente a chi, come noi, vive il significato dell’assenza di futuro senza speranza terrena, è indifferente anche ai vostri figli ed a chiunque ha ancora qualcosa, negli affetti, da perdere.

Una famiglia violentata da comportamento così antisociali che potrebbero giustificare il rancore, l’odio, il desiderio di vendetta, scrisse a pochi giorni dalla morte di Davide allo Stato (Regione Puglia, Comune di Bari, Comando dei Carabinieri, Questore, Ministro Alfano, Prefetto), per avere risposte e nuovi comportamenti delle istituzioni, perché l’omicidio stradale fosse prevenuto, perché sempre meno persone potessero soffrire come noi.

Non volevamo una giustizia personale, ma trasformare il nostro dolore in attenzione per gli altri, perché molto ricevi da chi gratuitamente non si spaventa del tuo viso solcato e ti sta vicino. Per dare un senso, perfino di utilità, al martirio civile di tuo figlio.

Per trasformare in impegno civile la considerazione che l’assassino di tuo figlio, per compiere il suo diabolico gesto, prima ha finanziato la mafia locale, quella che spaccia indisturbata nei locali notturni e nelle masserie in “feste private”. La droga non si vende ancora in farmacia o negli ospedali. Magari così sarebbe anche più sicura e metterebbe tutti in sicurezza.

Al di là di un comunque gradito incontro personale con la sensibilità umana del Comandante Provinciale dei Carabinieri, è seguito più che il silenzio, la stessa indifferenza dei genitori dell’omicida di Davide, per il loro figlio e per il modo in cui viveva. È un’indifferenza che ormai ha i connotati della complicità morale.

Con Davide, oltre noi, sono rimaste le persone semplici, qualche giornalista sensibile, degli uomini che della loro scelta sacerdotale hanno fatto anche un silenzioso modo di vita, accostandosi al tuo dolore, regalandoti il miracolo della tenerezza, ed accompagnandoti, quando lo desideri, nel tuo percorso con la croce che ti è toccata e che a volte, da solo, non riesci più a sopportare. Poi neanche il nulla, l’indifferenza, che, se esiste il male, è lì a segnarne il percorso.

Neanche il senatore Stefano, che, conosciuta la nostra storia, spontaneamente, ha proposto una specifica interrogazione parlamentare già dal 24 aprile del 2016, sollecitata ancora ad ottobre, è stato degno di una risposta, accostandolo, con dispiacere, alla nostra inconsistenza, per lo Stato.

Uno Stato che Davide amava, che amavo ed ora è una parola che mi dà il senso di una entità violenta e contraria, superba ed isolata, infastidita e gelosa, arrogante ed inutile.

Povero Davide.

Ma anche a coloro che pensano che, in fondo, è solo un incidente, che è solo un morto, che altre e più rilevanti sono le tragedie come i 150 morti di terrorismo, o i 400 del terremoto, o le cinquanta vittime dell’incidente ferroviario; oltre alla vergogna civile di pesare le morti, vorrei ricordare che di Davide, ogni anno, ce ne sono più di 3.500, e valutino con attenzione quale rischio è più facile che si realizzi per i loro figli.

In verità tutte queste persone, come i migranti, i poveri, ed ancora altri, sono tutte vittime dell’indifferenza di questo Stato incivile che non mi appartiene più, ma che vorrei ancora servire per la comunità che dovrebbe riunire.

Appartiene al Procuratore di Vasto che si assolve con violenza e veemenza, come se morte ed odio siano burocrazia; ai giudici che patteggiano senza ascoltare la flebile voce delle vittime che chiedono una rassicurazione di un minimo di dignità processuale, di avere una legittima pretesa; degli avvocati che si trincerano sul doveroso diritto di difesa dell’imputato, ma che dal processo penale fanno cassa, senza per questo volermi riferire direttamente a Gabriella Cipriani, che spero possa incontrare Davide ed insieme manifestare il loro amore per la musica; ai politici senza più aggettivi “squalificativi”, agli amministratori che troppo spesso proteggono quelle attività malate, perché comunque danno lavoro.

NO, certe attività danno morte!!

Davide è morto in circostanze chiare, oggi non si sa ancora se ci sarà un rinvio a giudizio mentre è molto probabile che, nella correttezza procedurale, la vittima non avrà voce, lo Stato non riconoscerà la dignità di vite spezzate. Ed allora a cosa serve parlarci? A sperare che esista ancora, oltre lo Stato silente, la comunità che, almeno questa, mi ascolti, mi risponda, mi faccia un cenno di sorriso, uno squarcio di luce.

Serve per aiutare i nostri figli a saper scegliere, a saper essere consapevoli delle responsabilità personali collettive, a riacquistare la voglia di una rivoluzione che, senza armi, possa issare una nuova bandiera.

Un colpo di Stato, per uno Stato che valga la pena.